Nel panorama del cinema d’autore del 2024, “The Brutalist” di Brady Corbet si distingue come un’opera ambiziosa che esplora le tensioni tra creatività, potere e identità attraverso la storia di un architetto la cui visione artistica si scontra con le dure logiche del mercato e della politica.
Girato in 70mm e con una fotografia che richiama i classici del cinema europeo, il film si presenta come un’epopea architettonica e umana, in cui la ricerca della bellezza si trasforma in un percorso doloroso e tormentato. La pellicola si colloca nel solco delle grandi narrazioni sulla condizione dell’artista nel mondo contemporaneo, rievocando opere come The Fountainhead di King Vidor e Barry Lyndon di Stanley Kubrick per la sua sontuosità visiva e per l’analisi dei meccanismi del potere.
Una storia di ascesa e caduta: il sogno americano attraverso l’architettura
La trama segue la vita di László Tóth, interpretato da Adrien Brody, un talentuoso architetto ungherese di origine ebraica che, dopo aver vissuto l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, emigra negli Stati Uniti nel 1947 in cerca di una nuova possibilità. Qui, insieme alla moglie Erzsébet (Vicky Krieps), si confronta con le promesse e le insidie del sogno americano.
Il protagonista viene accolto sotto l’ala protettrice di Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un magnate dell’edilizia che vede in lui il potenziale per realizzare un nuovo stile architettonico capace di ridefinire lo skyline delle città americane. Tuttavia, il sodalizio tra i due uomini si trasforma progressivamente in una relazione di dominio e sottomissione, in cui la libertà creativa di László viene progressivamente erosa dalle logiche del potere e dal compromesso economico.
L’arco narrativo del protagonista copre oltre trent’anni, mostrando il graduale declino della sua purezza artistica sotto il peso delle pressioni sociali e politiche. La storia si dipana come una riflessione sulla tragedia dell’artista moderno, costretto a scegliere tra il successo e la fedeltà alla propria visione.
Il brutalismo come metafora dell’umanità
Come suggerisce il titolo, il film si concentra sulla corrente architettonica del brutalismo, un movimento nato nel dopoguerra che puntava a un’estetica cruda e funzionale, in netto contrasto con le tendenze decorative del passato. Le imponenti strutture di cemento armato, esaltate dalla fotografia di Lol Crawley, non sono solo un elemento scenografico, ma diventano il simbolo stesso della psiche del protagonista.
Il brutalismo di Tóth è tanto una scelta estetica quanto un’affermazione ideologica: il desiderio di costruire edifici che non mentano, che siano privi di orpelli e sovrastrutture, riflette il bisogno dell’artista di esprimersi senza filtri. Ma proprio come il protagonista, questa architettura viene percepita come troppo radicale, troppo rigida, troppo poco adattabile ai gusti del mercato.
L’architettura di Tóth diventa così il mezzo con cui il film analizza il rapporto tra l’individuo e il sistema: fino a che punto un artista può resistere alle richieste del potere senza perdere la propria integrità? Quanto costa la fedeltà a se stessi?
Una regia imponente e una narrazione stratificata
Brady Corbet, già noto per film complessi come The Childhood of a Leader e Vox Lux, adotta un linguaggio cinematografico che mescola realismo storico e stilizzazione formale. Il film è strutturato in tre atti e un epilogo, con una narrazione che alterna flashback e momenti contemplativi, richiamando le opere di Terrence Malick per l’uso della voce fuori campo e delle immagini evocative.
Il regista non si limita a raccontare la vita di un uomo, ma costruisce un ritratto della trasformazione dell’America del dopoguerra, un Paese in cui il modernismo utopico viene progressivamente sostituito dal pragmatismo economico e dalla speculazione edilizia.
Il cast offre interpretazioni magistrali: Adrien Brody regala una delle sue prove più intense, conferendo a László un’aura di malinconia e ostinazione che lo rende un personaggio tragico e profondamente umano. Vicky Krieps, nel ruolo di Erzsébet, incarna la voce della razionalità e della resistenza emotiva, mentre Guy Pearce, nei panni di Van Buren, offre un’interpretazione che ricorda i magnati senza scrupoli del cinema classico, da Orson Welles in Quarto potere a Daniel Day-Lewis in Il petroliere.
Un film che divide: ricezione critica e dibattito
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, The Brutalist ha ricevuto recensioni contrastanti. Da un lato, molti critici hanno elogiato la grandiosità della sua messa in scena e la profondità della sua riflessione artistica. Dall’altro, alcuni spettatori hanno trovato la narrazione troppo cerebrale e fredda, un’opera che richiede impegno e che non concede facili soluzioni emotive.
Il film è stato paragonato a capolavori come Il conformista di Bernardo Bertolucci e L’uomo dell’anno di Joseph Losey, per la sua capacità di analizzare il compromesso tra arte e potere attraverso una prospettiva profondamente politica.
Nonostante le critiche, il film ha ricevuto il Leone d’Argento per la Miglior Regia e una candidatura al Golden Globe per il Miglior Film Drammatico, confermando Brady Corbet come una delle voci più interessanti del cinema contemporaneo.
Un’opera complessa e necessaria
The Brutalist non è un film per tutti, ma è un film necessario. È un’opera che chiede allo spettatore di interrogarsi sul ruolo dell’arte nella società contemporanea, sul prezzo del successo e sul valore dell’integrità.
Attraverso una narrazione stratificata, una fotografia mozzafiato e un cast d’eccezione, Brady Corbet realizza un film che rimarrà nella memoria per la sua capacità di raccontare la lotta interiore dell’artista con una profondità rara nel cinema contemporaneo.
Un’opera che, come le costruzioni brutaliste che rappresenta, potrebbe risultare scomoda e spigolosa, ma che lascia un segno indelebile nel panorama cinematografico del 2024.